leggende di Viterbo, Viterbo, informazioni turistiche e fotografie a cura di Anna Zelli sito ufficiale web www.annazelli.com
Viterbo |
viterbo tra la storia, il mito e le leggende | |||||||||||
STORIA MITO LEGGENDE DI VITERBO |
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Viterbo, tra storia, leggende e mito : le più note sono la Leggenda del frate Francesco D'Andrea, la leggenda del frate domenicano viterbese, Giovanni Nanni detto Annio, la leggenda sul mito di Ercole che da l'origine alla città di Viterbo, la leggenda di Galiana della bella Galiana. Le leggende di Viterbo Frate Francesco d'Andrea: Cronaca viterbese, secondo frate Francesco d'Andrea, le origini di Viterbo prenderebbero l'avvio da un certo Corinto, figlio di Iafet figlio di Noè, il quale giunse in Etruria in tempi antichissimi con i suoi parenti, uno dei quali, Tusco (evidente eroe eponimo degli Etruschi) fondò città e altari nella regione di Arezzo; altri due suoi parenti, i fratelli Italon e Savio, scendendo in quello che ai tempi del cronista era il «Patrimonio di Viterbo», vi avrebbe fondato due città, Surrena e Muserna, la prima delle quali innalzata nei pressi del Bullicame, le sorgenti sulfuree sparse nelle campagne a nord-ovest della città - ricordate anche da Dante -, che già in epoca romana erano un rinomato centro termale. I nomi di queste due città, che nel racconto di Andrea si sarebbero distrutte a vicenda combattendo tra loro, sono evidentemente etruschi, segno che alcune delle tradizioni a cui il cronista attinse erano di grande antichità. Leggenda sull’origine della Città di Viterbo, Frate Francesco D’Andrea, ipotizzò la città di Ercole sul colle del Duomo. Il Frate Francesco d’Andrea, narra in Cronaca Viterbese, come Iafet, figlio di Noè, lasciati i monti dell'Ararat, dove si era posata l'Arca, si recò in Inghilterra dove fondò Londra ed altre città. I suoi figli, dopo essersi sparsi per le terre circostanti, scesero infine in Italia costruendo vari castelli e città. Tra questi vi era un certo Corinto, che alcuni dicono figlio di Iafet, la cui moglie Elettra aveva fama di essere saggia quanto bella. Suo fratello Tusco fondò la città di Arezzo, dove istituì molti altari; altri due suoi parenti, i fratelli Italon e Savio, scesero a sud del lago di Bolsena e lì, in una zona dove si trovavano abbondanti sorgenti sulfuree, fondarono due città: la prima chiamata Surrena, nei pressi del Bullicame e l'altra chiamata Muserna. A nord-ovest della città vi erano lsorgenti sulfuree, ricordate anche da Dante, e che in epoca romana erano un rinomato centro termale. I nomi di queste due città, che nel racconto di Andrea si sarebbero distrutte a vicenda combattendo tra loro, sono evidentemente etrusche, segno che alcune delle tradizioni a cui il cronista attinse erano di grande antichità. Le due città di Surrena e Muserna divennero ben presto ricche e popolose, si combatterono e si distrussero a vicenda. In seguito capitò in quel paese un valente eroe chiamato Ercole, conducendo i buoi che aveva rubato a Gerione. Vedendo il bel paese devastato dalla guerra e le terre disfatte, egli edificò un castello, che venne chiamato Castrum Herculi, e gli donò, quale simbolo, il leone la cui pelle egli usava come mantello. In questo luogo, alla confluenza dei fiumi Urcionio e Paradosso, sorse la città chiamata Etruria Urbs, composta inizialmente da quattro castelli: Fanum, Arbanum, Vetulonia e Longula. (Altri dicono che fu Noè stesso che, sotto il nome di Enotrio o di Giano bifronte, che giunse in Etruria e fondò queste quattro fortezze.) Fu un nipote di Ercole, Terbo Tirreno, il capostipite dei Terbienses. I quattro abitati etruschi di Fanum, Arbanum, Vetulonia e Longula rimasero separati per molti secoli, finché Desiderio, ultimo re dei Longobardi, emanò un decreto con il quale si cingevano con unico giro di mura. Così nacque la città di Viterbo. Leggenda del frate domenicano viterbese, Giovanni Nanni detto Annio, era una singolare figura di umanista, letterato, filologo e orientalista, vissuto tra il 1432 e il 1502. Nei suoi Commentari, secondo il gusto dell'epoca, volle anch'egli glorificare la propria città e, come già aveva fatto frate Francesco d'Andrea, propose anche lui un improbabile intreccio tra genealogie bibliche e miti greci, fondendo il tutto con l'eredità etrusca che proprio in quegli anni cominciava a suscitare l'interesse degli studiosi. Le argomentazioni anniane dovettero godere di un certo credito, a tal punto che alle sue tesi si dedicò un ciclo di affreschi nella Sala Regia e nella Sala del Consiglio del Palazzo dei Priori di Viterbo. Annio riporta tuttavia la fondazione del primo nucleo della città allo stesso Noè (che nel suo scritto viene anche identificato con Enotrio e Giano Bifronte, in quanto vide i due aspetti del mondo antidiluviano e postdiluviano), a cui viene attribuita la costruzione dei quattro castelli: Fanum, Arbanum, Vetulonia e Longula, la mitica Tetrapoli Viterbese il cui acrostico FAVL fa tuttora parte dello stemma cittadino. Anche qui compare Ercole quale costruttore del Castrum, primo nucleo della città qui chiamata Etursia o Etruria Urbs, traversata dai fiumi Urgionus, Vetuloniensis e Paratussus (Urcionio e Paradosso), con il tempio del Fanum Voltumnæ (che è veramente esistito, ma non dove lo ipotizzò Annio), nel locus sacer degli Etruschi, posto poco fuori dall'abitato. Dopo aver menzionato addirittura Atlante, Corinto e Iasio come successivi regnanti, Annio vide nel nipote di Ercole, Terbo Tirreno, il capostipite dei Terbiensis, eroe eponimo della città di Viterbo. Quindi Annio si rivolge a Tarconte, personaggio della mitologia etrusca, eroe eponimo di Tarquinia, a cui egli attribuisce addirittura la fondazione della dodecapoli etrusca. La genealogia anniana coinvolge persino Desiderio, ultimo re dei Longobardi, a cui è attribuito un decreto con cui si cingevano con mura i quattro castelli della Tetrapoli. Come prova, Annio presentò una ruota semicircolare in marmo (attualmente al Museo Civico della città) rinvenuta casualmente tra le rovine dell'antica Torre Damiata presso piazza della Morte, incisa in caratteri longobardi, ma poi dimostratasi un falso. Il Mito di Ercole Il mito di Ercole, sulla origine della città di Viterbo, sia Francesco d'Andrea che Giovanni Nanni detto Annio sono d'accordo, sul fatto che la fondazione di Viterbo, sia avvenuta per opera dell'eroe greco Ercole, e che abbia edificato una fortezza sull'attuale Colle del Duomo, il Castrum Herculi. Questa notizia deriva da Niccolò della Tuccia che, rifacendosi alle memorie scritte del cronista Lanzillotto, riferisce che Ercole "edificò uno bel castello, che fu chiamato il Castello di Ercole, e per l'amore che gli portava donolli per arma il leone, della cui pelle andava egli coperto". L'evidenza archeologica mostra che proprio il Colle del Duomo fu il primo nucleo della città, abitato fin dal tempo degli Etruschi, come testimoniano le pietre di un antico pagus poste all'ingresso di piazza San Lorenzo, ove oggi sorgono la Cattedrale e il Palazzo Papale. Il nome del pagus, piuttosto attivo nel V e IV secolo a.C., non ci è noto; alcuni studiosi pensano possa appunto essere Surna (da cui la Surrena della cronaca di d'Andrea), con riferimento al dio degli inferi Suri, la cui presenza veniva giustificata, secondo le credenze popolari, con le esalazioni sulfuree del Bullicame. Che il pagus fosse dedicato ad Ercole, divinità che gli etruschi adoravano sotto il nome di Herχle Unial Clan, è documentato dai fregi marmorei ed i frammenti di iscrizioni rinvenuti nella seconda metà del XIX secolo. Latino Latini, uno studioso del XVI secolo, riporta il testo un'epigrafe romana, oggi perduta, ch era murata nella Cattedrale: “Al dio Ercole Magno Lucio Spurina agrimensore dell'Undicesima Legione in seguito a un voto promesso consacrò.” Forse questa iscrizione risaliva oltre al 58 a.C. in quanto questa legione fu istituita da Cesare per la sua Campagna contro gli Elvezi e in epoca augustea si trovò in zona per sedare una rivolta presso Perugia. Il nome Spurina d'altronde è etrusco, attestato in Provincia di Viterbo (Tarquinia) già nel V-IV secolo, dettaglio che può far appunto pensare a un culto locale ad Ercole. Il passaggio di Ercole in Etruria è d'altra parte testimoniato da una serie di leggende tramandate intorno alla sua figura, le quali si riallacciano al ciclo delle dodici fatiche. Dopo aver rubato il bestiame di Gerione, Eracle o Ercole lo condusse dall'Iberia alla Gallia, quindi in Liguria, in Italia e da qui in Grecia. Nel corso di questo lunghissimo viaggio, egli avrebbe lasciato testimonianza del suo passaggio in innumerevoli località, così come moltissime sono le città che avrebbe fondato. In Etruria egli avrebbe appunto fondato il Castrum Herculi, istituendo verosimilmente il culto che gli tributavano gli Etruschi. Si narra ancora che, in una valle a sud della città, incitato dai lucumoni a provare la sua forza, Ercole avrebbe conficcato al suolo la sua clava sfidando gli abitanti del luogo ad estrarla. Nessuno vi riuscì. Ma quando Ercole si riprese la sua clava, dal foro sgorgò un getto d'acqua che riempì la valle, formando l'odierno lago di Vico, il quale sembra fosse considerato sacro alle genti etrusche. Altri vogliono che in questo modo Ercole abbia fatto sgorgare dalla terra le sorgenti termali del Bullicame. La leggenda della Bella Galiana Altre leggende, la leggenda di Galiana, narrano che Viterbo fu fondata da alcuni esuli troiani, sbarcati sulle coste d'Etruria dopo la distruzione della città natia ad opera degli Achei. Secondo quanto era stato profetizzato, una scrofa dal manto bianco apparve loro indicando il punto dove avrebbero dovuto stabilire la loro nuova patria. Dopo aver fondato la nuova città, gli esuli presero a nutrire e venerare il feroce animale, che chiamarono "troia" in ricordo della patria perduta e consacrarono alla loro dea Elena. In seguito a questi fatti, i cittadini di Viterbo furono impegnati, per volere della dea, ad un sacrificio annuale. Ogni anno, nel corso delle festività primaverili, essi avrebbero consegnato alla "troia" una vergine di diciotto anni, sorteggiata fra le ragazze più belle e virtuose della città. La fanciulla veniva condotta fuori dalle mura cittadine, presso il fiume Paradosso, e là veniva denudata e legata a un macigno. La popolazione si ritirava poi ad una certa distanza e assisteva all'arrivo della sacra scrofa che, emersa dal bosco, divorava la sua vittima. La barbara usanza si perpetuò nel tempo ed era ancora in uso all'inizio del XII secolo; nonostante fosse trascorso tanto tempo, la scrofa era ancora lì, ansiosi di nutrirsi delle carni di una vergine, come esigeva il patto che gli esuli troiani avevano anticamente stretto con la loro dea. Ma gli abitanti di Viterbo, con l'avanzare della civiltà e l'ingentilirsi degli animi, non accettavano più l'idea di questo assurdo sacrificio, a cui pure si piegavano tra le lacrime. L'avvicinarsi del giorno di Pasqua giungeva come un incubo, diventando un giorno di lutto e non più di festa. Accadde così che a Viterbo, in una bella casetta, nacque Galiana, una fanciulla di modesta origine, la cui impareggiabile bellezza era pari soltanto alle sue virtù. Ed accadde che, quando Galiana compì diciotto anni, proprio lei fu estratta a sorte per essere sacrificata alla scrofa bianca. I Viterbesi ne provarono dolore e sgomento, ma il fato aveva designato Galiana all'orribile sorte e nessuno poteva impedirlo. Così Galiana fu condotta sul luogo del sacrificio, venne fatta spogliare e fu legata al macigno. Quando l'orologio della torre comunale suonò i rintocchi del mezzogiorno, la scrofa bianca emerse dalla foresta. Ma mentre l'animale si avvicinava alla fanciulla per divorarla, dal limite del bosco uscì un leone che, avventandosi sulla scrofa, la dilaniò con quattro terribili colpi dei suoi artigli. Mentre l'orologio suonava nuovamente dodici rintocchi, il leone, così com'era apparso, nuovamente scomparve. La città di Viterbo, riconoscente per essere stata liberata dal crudele tributo di sangue, rimosse il vecchio emblema della città, che fino a quel giorno aveva raffigurato un cavallo o un liocorno, e fece dell'immagine del leone, con accanto la pelle bianca della scrofa con le quattro ferite rosse poste in croce, l'emblema civico. La leggenda della bella Galiana, la leggenda narra che la bella Galiana venisse chiesta in sposa da giovani e nobili provenienti dalle città vicine, ma lei fidanzata con un giovane contadino chiamato Marco, respingeva ogni proposta, anche se avanzata da nobili. Si narra che un giorno Giovanni di Vico, discendente di una potente famiglia prefettizia di Roma, venne nella cittadina della Tuscia appositamente per ammirare la stupenda ventenne viterbese di cui non si fa che lodare in ogni dove l'incomparabile bellezza. Il nobile vide la fanciulla uscire con un'amica uscire dalla chiesa di San Silvestro e, avvicinatosi, le fece un inchino, ma Galiana neppure lo degnò d'uno sguardo. Nei giorni successivi, Giovanni compì ogni tentativo per avvicinare Galiana, parlarle, dichiararle il proprio amore, con l'unico risultato di sentirsi riferire che la ragazza non gradiva la sua corte e lo pregava di desistere dalle sue insistenze. Ferito nell'orgoglio da questo rifiuto, Giovanni stabilì di rapire la ragazza. Così, in una notte particolarmente buia, Giovanni si arrischiò ad arrampicarsi con una fune fino alla finestra della camera dove dormiva Galiana. Pare che un fulmine colpisse quella notte la campana della torre Monaldesca, che risuonò su tutta la città. I cittadini accorsero e impedirono al nobile romano di portare a termine il suo piano. I priori bandirono Giovanni di Vico da Viterbo, proibendogli il ritorno in città, pena la morte. Passò del tempo e Giovanni, radunato un esercito, marciò contro Viterbo, minacciando di prendere d'assedio la città se Galiana non fosse stata sua sposa. La risposta dei Viterbesi fu un netto e chiaro rifiuto. Allora il nobile mise in atto il suo piano. Cinse d'assedio Viterbo e concentrò i suoi sforzi dalla parte di Valle Faul, che era la più vulnerabile. Ma il popolo in armi seppe respingere ogni assalto, infliggendo gravi perdite alle truppe prefettizie. Si racconta che le donne viterbesi stavano a fianco degli armati sulle mura e che, anzi, proprio ad una di esse toccò la ventura di scagliare la freccia che colpì Giovanni, ferendolo gravemente. Allora il nobile romano fece sapere ai Viterbesi che se ne sarebbe andato, a patto che gli mostrassero Galiana. Egli si sarebbe accontentato di ammirarla per l'ultima volta, poi avrebbe tolto l'assedio. I priori si rivolsero a Galiana, la quale accettò per amor di patria. Il giorno successivo la ragazza si affacciò da una lunetta nella torre di Porta di Valle, quando una freccia scoccata da un soldato prefettizio la colpì alla gola. È incerto se il soldato scagliasse la freccia per sua iniziativa, o se compì il misfatto per ordine dello stesso Giovanni. La ragazza cadde morta. Molto violenta fu la reazione dei Viterbesi, i quali uscirono dalle mura in armi, guidati da un certo Guerriante, e costrinsero alla fuga le schiere prefettizie. Sembra che anche Giovanni di Vico morisse per le ferite riportate. Era l'anno 1138. Il corpo di Galiana fu tumulato in un sarcofago che era stato tratto, dicono alcuni, dall'antico masso del sacrificio, sul quale venne scolpito il miracolo del leone e della strofa. Il sarcofago fu portato nel portico della chiesa dedicata all'Angelo con la Spada, dove ancora oggi si può ammirare. 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